Il governo si appresta a varare un ddl sulle partite IVA, una sorta di estensione del jobs act per i lavoratori autonomi.
Le innovazioni principali sono:
- L’indennità di maternità anche se si continua a lavorare;
- Spese di formazione interamente detraibili;
- Possibilità di assicurarsi contro i mancati pagamenti con una polizza ad hoc;
- Possibilità per le partite IVA di partecipare ai bandi pubblici;
- Maggiori protezioni contrattuali (sui tempi di pagamento, recesso e modifiche unilaterali);
- Possibilità di sospendere il versamento dei contributi in caso di malattia;
- Sportelli dedicati al lavoro autonomo nei centri per l’impiego.
Mettendo in fila questi provvedimenti è difficile non compiacersi per una maggior considerazione del variegato mondo delle Partite IVA.
Non è difficile immaginare che il governo griderà alla “rivoluzione copernicana” e che le associazioni di riferimento (la più nota è ACTA) rivendicheranno il successo come frutto del proprio impegno.
Nel mio piccolo, da Partita IVA sono molto scettico su queste iniziative “settoriali” della politica e credo che la vita delle Partite IVA non migliorerà, forse neanche di un centimetro.
Il mio ragionamento è molto semplice. Ogni nuova disposizione genera nuovi diritti ma porta purtroppo con sé anche frutti velenosi: dispendio di risorse finanziare per la collettività (che qualcuno oggi o domani dovrà ripianare), nuove discriminazioni, nuovi incentivi perversi alla furberia e all’abuso del diritto, nuovi controlli (con necessità di pagare i controllori), nuovi adempimenti burocratici, nuovo contenzioso, con tutto ciò che ne deriva.
Il problema è che in Italia purtroppo Partita IVA non è sinonimo di lavoro autonomo.
E’ difficile avere statistiche in merito, ma una parte consistente delle partite IVA “non vorrebbe essere una partita IVA”, vive questa condizione come un ripiego (pensiamo soprattutto ai tanti over 50 che la aprono dopo aver perso il lavoro dipendente) o come un’ingiustizia dei propri “monocommittenti (il fenomeno delle false “partite IVA”).
Insomma tanta parte del popolo delle partite IVA non si sente davvero “imprenditore”. Ne sono il riflesso certi atteggiamenti “sindacal corporativi” del mondo delle partite IVA che hanno avuto il loro peso nel solleticare l’opportunismo politico del governo (“facciamo una legge per il popolo delle partite IVA per avere una carta elettorale da spendere nel 2016”).
Addirittura fino a qualche giorno fa si parlava di “compenso minimo” per le partite IVA, una incredibile contraddizione in termini (un imprenditore che si fa mantenere se non trova clienti o se i clienti non lo pagano).
La verità è che se dimentichiamo la natura intimamente imprenditoriale del lavoro autonomo creiamo un danno a tutto il sistema. I lavoratori autonomi hanno bisogno unicamente di aliquote basse e poca burocrazia. Punto.
Per il resto se sono davvero autonomi si organizzano da soli, si fanno le polizze da soli, si cercano clienti che pagano da soli, scelgono da soli quanta formazione fare, come scrivere i contratti e quanto investire in previdenza. E se non hanno sufficiente forza negoziale con i clienti non vanno a piagnucolare da “mamma-stato” ma si inventano soluzioni commerciali e imprenditoriali nuove.
Solo se concepito in questo modo il lavoro autonomo produce vera ricchezza e vera innovazione.
Mance e aiutini stanno bene solo nel discorso di un politico. Nella realtà purtroppo si tradurranno in maggiore burocrazia e maggiori costi da ripianare con aliquote (fiscali e contributive) più alte.
E intanto scopriamo che finora l’assegno pensionistico medio erogato dalla Gestione Separata (“la previdenza di chi non ce l’ha” come fu definita quando nacque nel 1996) è di 167 euro al mese…
Lorenzo, hai ragione. Le partite IVA devono essere mature e crescere sotto questo profilo, siano o meno imprenditori di se stessi: misure come quelle in fase di approntamento produrranno, in tal senso, benefici (pochi) e debito (tanto). Permettimi però un passo in più: anche lo Stato -cioè noi stessi e chi ci rappresenta- deve crescere e maturare in questo scorcio di nuovo secolo, sia nel rapporto con i propri lavoratori dipendenti (da sempre trattati con i guanti bianchi, con tutele talmente lasche da arrivare ad incentivare il disimpegno e l’assenteismo) sia nel rapporto col lavoratore privato (superando l’assioma partita IVA=bancomat pubblico). Una riforma del lavoro è sì necessaria, ed a 360 gradi: ma nella direzione opposta (ancora tutta da realizzare in Italia) di modalità privatistiche realmente efficienti e flessibili nella domanda e nell’offerta, come modello da indirizzare poi verso il settore pubblico – retribuzione in base ai risultati, maggiore formazione e flessibilità, responsabilità e sanzioni per infedeltà al pubblico servizio, tagli reali agli sprechi veri – anziché “battere” la strada di allargare le maglie del debito pubblico a quei figli di un Dio minore che, in Italia, si chiamano liberi professionisti (o più volgarmente, partite IVA). Questi ultimi sarebbero i primi a beneficiarne davvero.
Grazie Marco per questo “passo in più”. Sottoscrivo. E’ un processo culturale molto lungo, ma ci arriviamo, siamo “condannati ad arrivarci”