Il reddito di cittadinanza è realtà. Non sappiamo se funzionerà come contrasto alla povertà, ma sappiamo certamente che si risolverà in un enorme spreco di soldi come strumento di sostegno e incentivo all’occupazione.
Il meccanismo in linea teorica potrebbe sembrare efficace ad uno sguardo superficiale: lo stato riconosce un sussidio a chi non lavora e chi non lavora in cambio si impegna, con l’aiuto dei centri per l’impiego, a cercare un lavoro e ad accettarlo nel caso gli venga offerto. I datori di lavoro ricevono un bonus quando assumono un beneficiario del sussidio. Il fallimento annunciato nasce dal fatto che questo disegno poggia su una visione del lavoro vecchia di almeno trent’anni.
Secondo chi ha progettato il reddito di cittadinanza il lavoro di oggi è ancora quello delle fabbriche e dei campi: mansioni standardizzate che chiunque può imparare in fretta e dove non c’è alcuna differenza se il pomodoro l’ho colto io o una persona con formazione diversa dalla mia, dove non c’è alcuna differenza se il bullone l’ho avvitato io o una persona con competenze e inclinazioni diverse dalle mie.
In realtà questi lavori a basso valore aggiunto esistono ancora ma rappresentano ormai una fetta sempre più piccola del mercato. Di più, sono lavori sempre più malpagati, precari e stagionali, spesso al confine con il circuito del nero e dei subappalti irregolari. Quindi il reddito di cittadinanza difficilmente condurrà i disoccupati a questo tipo di lavori, visto che l’incentivo ad assumere per i datori di lavoro è subordinato all’assunzione a tempo indeterminato, e a una serie di adempimenti e vincoli (devono essere assunzioni incrementali e non di sostituzione).
Tutto il resto del panorama lavorativo del terzo millennio richiede competenze, soft skills (intraprendenza, capacità comunicative e negoziali, creatività, ecc.) e motivazione. Trasferire competenze e soft skills a chi non ne ha (altrimenti non sarebbe disoccupato) richiede uno sforzo finanziario e professionale enorme e tempi lunghissimi. Non sono certo i “navigator” (precari anche loro) dei centri per l’impiego ad avere l’esperienza per una missione così complessa. Senza dimenticare che per imparare ci vuole motivazione, “fame” e che la “fame” ti passa quando hai la prospettiva di ricevere comunque una “paghetta” che in molte parti d’Italia consente, se unita alle risorse familiari e a qualche “lavoretto”, di vivere decorosamente dal divano o dal bar della piazza.
L’errore più grande di chi ha progettato il reddito di cittadinanza resta però quello di aver dimenticato che nel mondo del lavoro del terzo millennio siamo tutti in prova, tutti sotto valutazione. Nessuno può permettersi il lusso di assumere la persona sbagliata. Questo aspetto fondamentale ha tre implicazioni sul funzionamento del reddito di cittadinanza.
La prima implicazione riguarda il fatto che i datori di lavoro utilizzano i contratti a termine per conoscere il lavoratore. Se l’incentivo all’assunzione di un “sussidiato” è condizionato ad un contratto a tempo indeterminato gli imprenditori preferiranno rinunciare all’incentivo economico pur di poter continuare ad assumere a termine, “in prova”.
La seconda implicazione è che i beneficiari del sussidio non vengono ben visti da chi li deve selezionare. La loro condizione viene associata a quella del “fannullone”, del “problematico”, del “mantenuto”: “Se prendi un sussidio sei probabilmente o furbo, o pigro o con basse competenze, o forse un mix delle tre” potrebbe pensare il datore di lavoro, assecondando un pregiudizio molto radicato, soprattutto al nord. In questo senso il reddito di cittadinanza scatena quel meccanismo che gli economisti definiscono “selezione avversa” https://it.wikipedia.
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