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Fonte: Rai.tv
Il dibattito su scuola e lavoro ha le sue “mitologie”. Una delle più consolidate riguarda l’alternanza scuola lavoro.
La vulgata dice:
- I giovani italiani al termine degli studi non hanno la più pallida idea di come funziona la “vita vera” nelle aziende;
- Le aziende hanno difficoltà ad assumere i giovani neolaureati o neodiplomati perché non sono preparati concretamente alle sfide del lavoro;
- I giovani italiani studiano soltanto e non sanno fare niente;
- All’estero (soprattutto il mitico modello tedesco) la scuola insegna “i mestieri” e questo spiega il differenziale di occupazione giovanile tra noi ed altri importanti stati europei;
- Per entrare nel mondo del lavoro bisogna in qualche modo averlo “annusato”, aver fatto esperienza anche solo del “contesto ambientale”.
Siccome queste affermazioni sono considerate verità di fede (e tali sono perché non poggiano su riscontri oggettivi e dunque non sono “popperianamente” falsificabili) la politica si adegua:
Il jobs act, “il posto” e il lavoro di qualità
Il governo ha scommesso moltissimo sul jobs act e sull’ormai famigerato contratto a tutele crescenti. L’idea che sta dietro al contratto è all’apparenza ragionevole: le aziende che competono senza paracadute nel mondo globalizzato non possono permettersi matrimoni con i dipendenti “fin che morte non ci separi” e dunque i rapporti di lavoro vanno risolti senza traumi e con un bell’indennizzo. Se creiamo un contratto a tempo indeterminato con una “exit strategy soft”, dice il governo, cadono gli alibi dei datori di lavoro che dunque potranno rinunciare a tutte quelle forme contrattuali ibride (co.co.co, co.co.pro., somministrazione, partita IVA, ecc.) con cui si erano ingegnati per evitare l’art 18.
Il governo ci ha creduto tanto che ha messo sul tavolo qualche (è ancora difficile capire bene quanti a operazione conclusa) miliardo di euro: All’imprenditore che assume “a tutele crescenti” sgravi irap e decontribuzione per 3 anni fino a 8000 euro l’anno.
Fin qui tutto chiaro. Sono fiorite mille polemiche che riassumo così: