La CGIL ha appena lanciato la campagna referendaria sul lavoro. Nel 2017 infatti, salvo “sorprese politiche” dovremmo essere chiamati a pronunciarci in un referendum sui buoni lavoro, i famigerati voucher.
Abbiamo imparato a conoscerli. Sono dei buoni del valore di 10 euro ciascuno, che il datore di lavoro compra e consegna al lavoratore. Nei 10 euro ci sono 7,5 di compenso, mentre i restanti 2,5 euro sono per assicurazione INAIL e contributo pensionistico.
Per legge non si possono guadagnare in un anno più di 7000 euro netti attraverso i voucher. E non si possono superare i 2020 euro per prestazioni presso lo stesso imprenditore/professionista.
Lo strumento dei voucher ha avuto un grande successo (145 milioni di buoni lavoro venduti nel 2016). Dal 2003 con continuità i governi di centrodestra e centrosinistra hanno visto nel voucher uno strumento iper flessibile che consente di regolarizzare lavoretti che altrimenti finirebbero nel nero.
Con il crescere del successo sono aumentati però anche gli abusi e si è diffusa quindi l’idea che il voucher sia in sostanza una truffa legalizzata, uno strumento subdolo per precarizzare il lavoro e togliere diritti ai lavoratori. Chi ha ragione? Cosa votare al referendum?
Chi difende la bontà dello strumento dice sostanzialmente due cose:
1) nonostante la percezione, il fenomeno voucher e’ molto contenuto (solo lo 0,35% delle ore lavorate in Italia e’ retribuito tramite voucher);
2) nella maggior parte dei casi il voucher e’ usato correttamente (così come ha fatto la CGIL per remunerare al suo interno piccole estemporanee attività), per “lavoretti” e prestazioni occasionali. Lo dice sulla base del fatto che circa il 60% degli utilizzatori ha già un altro lavoro o è in pensione.
Chi attacca il voucher si focalizza invece sugli abusi:
E’ difficile trovare dati che dimostrino inequivocabilmente questo fenomeno ma quello che presumibilmente è accaduto è che il datore di lavoro abbia dato al barista di turno un voucher per un’ora di lavoro e l’abbia pagato in nero per le restanti ore della giornata.
Insomma che il voucher sia stato una parzialissima regolarizzazione di lavoro nero. In questa prospettiva i critici dei voucher osservano che il voucher abbia in qualche modo incentivato il nero secondo un ragionamento imprenditoriale di questo tipo:”Se lo regolarizzo mi costa troppo e mi assumo troppi rischi. Gli dò un voucher ogni tanto così abbiamo una parvenza di regolarità. Se poi arrivano gli ispettori qualcosa ci inventeremo“.
Presumibilmente in tanti casi è andata così. Ed è un abuso. Ed è ingiusto. Il governo ha lavorato con qualche primo successo sulla tracciabilità, ma il problema resta. Chi ha ragione? Cosa fare al referendum?
La risposta semplicistica è che investendo sull’attività ispettiva gli abusi si ridurrebbero. Che eliminando l’utilizzo da settori particolari come l’edilizia tanti comportamenti illegali verrebbero scoraggiati.
Alla fine però quello che decideremo al referendum dipenderà in fondo dalla nostra sensibilità personale: Meglio essere rigorosi e dividere il mondo in bianco e nero rigidamente (con il rischio che tanti si orientino sul nero o sul non assumere), o meglio ridurre il nero accettando un pò di “grigio”? Quanto compromesso con la legalità siamo disposti ad accettare per ottenere dei benefici sociali? Una questione di sensibilità e percezione personalissima.
Una cosa è certa: il fenomeno dei voucher è legato alla diffusione di quella che gli studiosi chiamano gig economy, l’economia dei lavoretti precari e malpagati. Il lavoro buono non c’entra nulla con i voucher. E il lavoro buono si fa con le competenze buone, con tanti laureati giovani e professionisti di qualità. Ci vogliono molti anni ed è per questo che il sistema educativo italiano si deve muovere davvero, e subito.
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