Theresa May, premier inglese, vuole rilanciare le Grammar School, le scuole secondarie statali d’élite del sistema educativo britannico, nate nel ’44 e fondate sull’idea della selezione all’ingresso. Si entra a 11 anni solo superando prove selettive molto stringenti.
Per decenni i laburisti hanno combattuto contro le Grammar School viste come scuole classiste dove le elite si autoselezionavano. Nel ’98 Blair aveva addirittura decretato l’impossibilità di istituirne di nuove.
Il governo di Teresa May invece le vuole rilanciare come strumento di meritocrazia: I figli dei ricchi per eccellere hanno le scuole private, sostiene la May, gli undicenni meno benestanti potranno eccellere studiando nelle Grammar School statali.
I laburisti rispondono che solo le famiglie benestanti possono concedersi il lusso di spendere molto per la preparazione del difficilissimo test di ingresso.
Comunque la si pensi la vicenda Grammar School in Gran Bretagna appare un segno dei tempi che probabilmente anticipa quello che potrebbe succedere anche in Italia.
Fino a quando la scuola e l’università sfornavano posti di lavoro mediamente buoni ai genitori bastava dire “studia, prendi buoni voti e hai fatto il tuo dovere”. I genitori si fidavano ciecamente di ciò che la scuola di stato “metteva nel piatto”. Non si preoccupavano dei programmi, del cv dei docenti, delle attività extracurricolari, del rendimento medio degli studenti, dei voti Invalsi e della composizione delle aule.
Oggi i genitori sembrano aver intuito che scuola e università producono lavoro “buono” in quantità sempre più limitate. Il pezzo di carta in sè vale di meno e vale sempre di più l’effettivo mix di competenze, esperienze, personalità che un giovane lavoratore si è costruito nel suo percorso scolastico universitario. Così la Scuola e le sue performance vengono radiografate e i genitori si comportano da clienti che mettono i propri figli “sul mercato”, mentre i presidi “vendono il proprio prodotto” con workshop e open day vari.
La vicenda Grammar school sembra quindi avvertirci che anche in paesi con una cultura della scuola non competitiva e anti elitaria i genitori stanno accettando l’idea che un percorso di studi “normale” non basti più per assicurare ai propri figli “un buon lavoro”. E al di là dei genitori sono i sistemi economici nel loro complesso, nella morsa della competizione globale, che pretendono una forte crescita della produttività del lavoro e del capitale intellettuale.
Da qui la richiesta di scuole eccellenti, che spingono all’eccellenza e non fanno mistero di veicolare, fin dalla più tenera età, la cultura della competizione e del perfezionamento continuo.
I divari intanto sembrano condannati ad aumentare, e con il tempo saranno innanzitutto divari di sapere e di talento che si tradurranno in divari socioeconomici. L’Eurostat dice che in Europa nel 2015 il 65% dei figli di genitori con un titolo di studio basso è a rischio povertà. Percentuale che scende al 32% per i figli di genitori con titolo di studio medio e al 10% per i figli di genitori con titolo di studio alto.
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