Per due anni ci siamo interrogati sulla capacità del Jobs Act di creare posti di lavoro. Qualcuno ha esultato perché la contabilità gli dava ragione (585mila occupati in più); qualcun altro invece ha contestato perché la qualità dei lavori creati non era buona (effetto voucher), perché le assunzioni erano “drogate” dalla costosa (per le casse dello stato) decontribuzione, perché la percentuale dei nuovi contratti “a tutele crescenti” rispetto al totale dei nuovi rapporti di lavoro si è rivelata ben più bassa del previsto (meno del 25% l’ultimo dato).
L’Inps, qualche giorno fa, ci ha ricordato che non esistono solo i lavori “trovati”, ma esistono anche i lavori “perduti”. I licenziamenti per “giusta causa e giustificato motivo soggettivo” sono aumentati nell’ultimo anno del 31%. L’economia rallenta, gli incentivi fiscali diminuiscono e inesorabile si profila all’orizzonte quel “lato oscuro del Jobs Act” che nella sbornia di numeri avevamo quasi dimenticato: il contratto di lavoro è meno protetto.
Per la verità ce l’avevano ricordato le banche (che non concedono il mutuo a chi può garantire solo con un contratto “a tutele crescenti”) ma, nel sentire comune, fino a poco tempo fa prevaleva l’entusiasmo per la novità e per i primi riscontri apparentemente incoraggianti.
Con gli ultimi dati sui licenziamenti possiamo dire che rischia di venire a nudo prima del tempo il punto debole del Jobs Act: cosa facciamo con i lavoratori più facilmente espulsi dal sistema? Il governo ha un progetto che sta partendo in queste settimane. Si chiama Anpal (Agenzia Nazionale per le politiche attive del lavoro) ed è un’agenzia pubblica che dovrebbe implementare delle strategie di ricollocazione per chi perde il lavoro. Il soggetto licenziato riceverebbe un voucher con cui “comprare” formazione e orientamento da centri per l’impiego e agenzie per il lavoro. Ci auguriamo che funzioni presto e bene. Solo se funzionerà davvero la gestione di chi “viene espulso”, l’operazione Jobs Act potrà dirsi compiuta.
Certo, affidare la battaglia decisiva a un “esercito sbandato” come oggi appare il mondo dei centri per l’impiego non lascia ben sperare. E anche le prime circolari del Ministero sulla trafila a cui sarà costretto il disoccupato tra moduli, profilazioni, verifiche incrociate (con NASPI, ASDI, DIS COLL, ecc.), indennità di mobilità, “patti di servizio”, “dichiarazioni di immediata disponibilità”, lasciano temere che il mostro burocratico divori tutto.
Restano sullo sfondo due certezze:
– il licenziamento non sarà più un’onta personale o una maledizione di una società cattiva di sfruttatori e di sfruttati, ma una condizione fisiologica in un mercato del lavoro non più protetto;
– difenderemo il nostro lavoro non brandendo un contratto o una lettera di un avvocato, ma valorizzando giorno dopo giorno le nostre competenze professionali.
Un consiglio al governo: la migliore politica contro i licenziamenti sono gli investimenti in scuola e università: un prodotto che esce veramente solido dalla “fabbrica” (scuola e università) ha meno bisogno di costosi interventi di “manutenzione” (disoccupazione) nel corso della sua vita.
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