Nel primo semestre 2015 in Italia sono stati venduti quasi 50 milioni di voucher lavoro. Il tasso di crescita nell’utilizzo di questo sistema semplice per regolare le prestazioni di lavoro è stato costante dal 2008 (anno di introduzione) su valori che arrivano fino al 75%. Insomma un successo.
Non c’è bisogno di contratto, non c’è imposizione fiscale sul lavoro, non ci sono ripercussioni sullo status di disoccupato, non c’è divieto di cumulo con la pensione. C’è invece la copertura assicurativa INAIL.
Il voucher ha successo perché risponde perfettamente al bisogno di leggerezza contrattuale dell’imprenditore. Poca burocrazia, poche responsabilità, minimizzazione dei costi.
I sindacati e molti osservatori del mondo del lavoro storcono la bocca quando sentono parlare di voucher perché vedono un pericoloso superamento del mondo dei contratti e delle protezioni legali.
Qui sorge la domanda: il successo dei voucher dipende solo dal fatto che l’imprenditore odia i costi fissi e non vuole avere su groppone burocrazia e impegni troppo vincolanti con il proprio personale? Sicuramente sì, ma è una risposta solo parziale.
Il problema è che tecnologia e globalizzazione stanno creando un mondo del lavoro dove aumenta la percentuale di lavori in cui il lavoratore è perfettamente sostituibile in tempi rapidissimi dalla stessa tecnologia o da altri lavoratori disposti a fare la stessa identica cosa guadagnando un centesimo in meno: “Perchè “sposarci” con un contratto se posso fare a meno di te in qualsiasi momento senza particolari costi? Altro che contratto, facciamo il voucher”.
Il successo dei voucher fotografa un mondo del lavoro in cui diminuisce il “lavoro medio” (discretà stabilità, discreti stipendi, forte protezione contrattuale) e aumenta “il lavoretto” (precarietà, saltuarietà, bassi compensi, basse protezioni normative). Un mondo in cui i figli di chi una volta con il diploma entrava in banca come impiegato o senza diploma entrava in fabbrica come operaio oggi si trovano di fronte a un bivio: o il successo professionale (da manager o da imprenditori) o la collezione di “lavoretti”. La terra di mezzo (il vecchio impiegato di banca e il vecchio operaio) è sempre più piccola.
Se il mondo resta globalizzato e ipercompetitivo e se la tecnologia continua a crescere esponenzialmente (ci saranno tassisti tra vent’anni o avremo auto senza conducente?) sarebbe stupido aspettarsi che il fenomeno “lavoretto-voucher” venga cancellato con un tratto di penna da un qualsiasi job act che imponga “assunzioni per tutti”.
E’ anzi ragionevole pensare che le soglie di retribuzione attualmente in vigore per scoraggiare l’abuso del “buono-lavoro” vengano alzate. L’unico modo di difenderci che abbiamo è investire e far investire (dallo stato) sul nostro capitale umano: competenze tecniche evolute e soft skills imprenditoriali. Chi si sarà costruito spalle larghe avrà costruito la propria occupabilità, la propria insostituibilità. Nessuno gli proporrà mai un voucher.
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