Il jobs act, “il posto” e il lavoro di qualità
Il governo ha scommesso moltissimo sul jobs act e sull’ormai famigerato contratto a tutele crescenti. L’idea che sta dietro al contratto è all’apparenza ragionevole: le aziende che competono senza paracadute nel mondo globalizzato non possono permettersi matrimoni con i dipendenti “fin che morte non ci separi” e dunque i rapporti di lavoro vanno risolti senza traumi e con un bell’indennizzo. Se creiamo un contratto a tempo indeterminato con una “exit strategy soft”, dice il governo, cadono gli alibi dei datori di lavoro che dunque potranno rinunciare a tutte quelle forme contrattuali ibride (co.co.co, co.co.pro., somministrazione, partita IVA, ecc.) con cui si erano ingegnati per evitare l’art 18.
Il governo ci ha creduto tanto che ha messo sul tavolo qualche (è ancora difficile capire bene quanti a operazione conclusa) miliardo di euro: All’imprenditore che assume “a tutele crescenti” sgravi irap e decontribuzione per 3 anni fino a 8000 euro l’anno.
Fin qui tutto chiaro. Sono fiorite mille polemiche che riassumo così:
- Le tutele crescenti stabilizzano e istituzionalizzano la precarietà, sbilanciando radicalmente i rapporti negoziali tra datore di lavoro e lavoratore;
- Il miglioramento dei dati occupazionali è figlio solo delle condizioni macroeconomiche favorevoli, non del contratto a tutele crescenti. Lo dimostra il fatto che la crescita più significativa è registrata dai contratti a tempo determinato;
- Il contratto a tutele crescenti crea un nuovo apartheid nelle aziende. Chi ha l’art. 18 e chi non ce l’ha;
- Le aziende più illuminate riconoscono l’art. 18 come benefit, derogando “al rialzo” a quanto previsto dal jobs act;
- E’ ingiusto che i dipendenti della pubblica amministrazione siano “graziati”;
- I benefici fiscali hanno favorito la trasformazione a tempo indeterminato di rapporti di lavoro già esistenti. Scarsissimo impatto sulla creazione di nuovi posti.
Mi ritrovo molto in alcune di queste osservazioni polemiche ma credo sia ancora più importante portare in superficie un equivoco concettuale di fondo: quando il governo dice che aumentano i posti di lavoro di qualità implicitamente dice che i contratti a tempo indeterminato sono posti di qualità. E’ l’equivoco in cui cadono i nostri genitori che confondono il concetto di lavoro di qualità con il concetto di posto fisso. E il concetto di posto fisso con il concetto di lavoro a tempo indeterminato.
Oggi avere un contratto a tempo indeterminato è certamente una garanzia in caso di malattia e gravidanza e (forse) richiesta di mutuo. Ma che ci sia o meno l’art.18 un contratto a tempo indeterminato non è di per sé un “posto”, un “buon lavoro”, come lo definirebbero i nostri genitori.
Spiego perché con un esempio banale: quest’estate a Melfi FIAT ha assunto a tutele crescenti 1500 giovani. Meravigliose storie di meravigliosi ragazzi, spesso anche laureatissimi, che fanno sacrifici enormi e si godono uno stipendio sicuro in una terra difficile. Tutto bello e giusto e da italiano dico grazie a FIAT per aver creduto in Melfi e per gli straordinari investimenti in produttività. Osserviamo però razionalmente questi “posti”. Se i consumatori di tutto il mondo diminuiranno la loro richiesta di Jeep? Come farebbe ogni imprenditore sano FIAT sarà costretta ad andare dai “tutelati crescenti” per dire “Mi dispiace le macchine non ce le comprano più. Purtroppo dobbiamo diminuire il personale”. Ora la domanda di fondo è? Cosa fa un quarantenne (per carità di patria non parliamo neanche degli over 50) operaio FIAT che mantiene una famiglia e una casa a Melfi e si ritrova senza lavoro?
La questione della qualità del lavoro va posta oggi proprio in questi termini. Un lavoro di qualità oggi non è un lavoro “con il contratto giusto”.
E’ invece un lavoro che mi permette di essere difficilmente sostituibile (dai colleghi o da un software/robot), di rivendermi, ripiazzarmi, reinventarmi facilmente. E’ un lavoro che mi permette di sviluppare competenze ed esperienze che posso giocarmi facilmente se tutto va male e devo ricominciare da capo.
In questa prospettiva per un ragazzo del sud paradossalmente è meglio essere un bravo web designer a Napoli con partita IVA da 1000 euro al mese che un operaio a tutele crescenti a Melfi. E’ così. Eppure ancora non ci crediamo davvero. Tanto che a Melfi fior di laureati in ingegneria meccanica, umili e desiderosi del posto vicino casa, hanno preferito entrare in FIAT in fabbrica, da operai, invece di cercare in giro per l’Italia (o per il mondo) un lavoro che valorizzasse a pieno da subito la loro laurea prestigiosa. In bocca al lupo ragazzi, ma statev accuort!